ne scrive Nina Nasilli, direttrice della collana:

La mia risposta alla domanda di Pasquale di Palmo “Quali differenze intercorrono tra espressione in lingua e in dialetto?” in una intervista apparsa sulla rivista “Succede oggi” nel novembre 2017 era:

“Se da una parte la fonte da cui sgorgano – per me – le due manifestazioni espressive è sempre la stessa, ed è urgente, fisiologica, “naturale”, dall’altra è vero che esse, in quanto ciascuna linguaggio, utilizzano ognuna strumenti propri, attuando sistemi (mondi) compositivi e cognitivi diversi, e complementari. A partire dagli inevitabili condizionamenti formali, sonori e ritmici. Ma anche semantici. E succede – toccando il magico/necessario rapporto cosa-parola – che nella lingua poetica italiana, già evocativa in forza di una natura etimologica straordinaria, una parola sia non solo la cosa che è ma anche tutto il suo pensato in potenza, il suo pensiero mancato, e lo agisca implicando una energia astrattiva che subito mostra la sua fame di parole, fame che sempre la parola trovata in parte delude, mettendo in cerca ancora (come a dire: dalla parola al pensiero, verso un pensiero altro, che cerca le cose, e le parole, ma si realizza davvero nella sua fame inesausta, che si pensa). Nel dialetto invece la parola è, essenzialmente, appagata e appagante: è tecnica, precisa, e staglia la cosa per ciò che è in una concretezza di spazio e di tempo che sposta a sua volta cose, con tutto il rumore che segue, ma sono tutte cose (le immagini, i ricordi, le nebbie o l’erba … tutto): dal suono della memoria (che è la parola) alla cosa, dalla cosa a un’altra cosa, un’altra memoria … dentro un movimento immaginifico stupendo. Negli esiti il dialetto si mostra subito con sorriso e calore, per il suo appeal sociale, aggregante, che ama la condivisione collettiva, la lettura a voce alta, non solo “tollera” una tavola imbandita, ma quasi invita alla partecipazione della mensa, e muove al confronto, al dia-logo. Il dialetto accoglie: unisce, ci fa ritrovare, dal ricordo della casa in poi.”

Ecco: la nascita della collana “foglie e radici”, avvenuta nel 2016, è legata alla necessità di creare uno spazio specifico, dedicato alla poesia in dialetto, con l’intento di rendere “disponibili” quel vigore e quella vitalità che l’han fatto definire, da Tonino Guerra, “la lingua del sangue”, da Pavese “la lingua della memoria e del sogno”: è l’idioma dei fenomeni naturali, come riconosce Pierluigi Cappello, la lingua fisica “degli oggetti che semplicemente vengono” (Pasolini), la lingua che “nel momento in cui viene, monta come un latte” (Zanzotto). Ricordando ciò che ha detto Baldini, o Guerra (o forse entrambi …), ovvero che “ci sono ancora cose, persone, fatti, che succedono in dialetto, e quindi vengono raccontati in dialetto”, i poeti invitati a partecipare a questo progetto editoriale lasciano una traccia di questo evento, che, ancora con Zanzotto, “si pone come un primo mistero”, ciascuno di loro in cerca di quel “fondo impietrito”, di quel nodo ultimo della vita, che si manifesta e sprizza come un “lampo-sgiantìzo” (Meneghello).